Influenza aviaria. Ancora “grazie” agli allevamenti di massa. A rischio ora gli uccelli selvatici e i mammiferi

Parlare di animali non è solo raccontare i colori che vedono i cani o suggerire cosa non devono o non devono mangiare i nostri pet domestici. O come giocare col gatto. Il web è stracolmo di articoli su questo. Scrivere di vita animale, e non a caso scriviamo e leggiamo Zampylife, vuol dire raccontare la vita. La vita di chi lascia una impronta.

Le impronte sono quelle degli animali classificati anche da reddito. Su di loro e per loro si stanno combattendo battaglie etiche, per migliorarne il benessere, per fermarne lo sconsiderato consumo. Dagli allevamenti di massa non parte solo un grido di aiuto, ma si diffonde anche come conseguenza di un massivo allevamento, l’influenza aviaria.

Siamo oltre la soglia di sicurezza. Qui di seguito ecco alcuni report. Agghiaccianti.

L’evoluzione della situazione dell’influenza aviaria a livello globale negli ultimi mesi ha sollevato una certa preoccupazione fra la comunità scientifica internazionale. Dopo i casi confermati di trasmissione del virus H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) dagli uccelli in alcune specie di mammiferi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (Woah) hanno invitato tutti i Paesi ad innalzare il livello di allerta sull’arrivo di una nuova pandemia di influenza nella popolazione umana sostenuta da un virus di origine aviare. Secondo i dati epidemiologici del Centro di referenza nazionale ed europeo per l’influenza AVIARIA presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), in Italia la circolazione del virus H5N1 fra gli uccelli selvatici è “in aumento, con il rischio che questi possano trasmettere il virus agli allevamenti avicoli”. Il ministero della Salute ha intanto diramato pochi giorni fa una nota, indirizzata a tutti i servizi veterinari regionali e agli Istituti Zooprofilattici italiani, in cui ravvisa la necessità di rafforzare la sorveglianza dei volatili selvatici e l’applicazione delle misure di biosicurezza negli allevamenti avicoli.

“La diffusione del ceppo H5N1 HPAI fra gli uccelli selvatici è in aumento, in Italia come nel resto del mondo- fa sapere Calogero Terregino, direttore del Centro di referenza per l’influenza  aviaria  – Nel nostro Paese, i casi di H5N1 HPAI nell’avifauna interessano principalmente Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia. Il ministero della Salute ha evidenziato come tale situazione costituisca un rischio costante per gli allevamenti di volatili domestici, considerato che alcune zone ad elevata densità avicola coincidono con le aree dove attualmente si rilevano casi di HPAI nei selvatici. Come Centro di referenza stiamo monitorando l’evoluzione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale con estrema attenzione, per evitare che si verifichi una situazione come nell’inverno 2021-2022”.

La situazione in Italia. Negli uccelli selvatici, a partire da settembre 2022, sono stati ufficialmente confermati 79 casi di positività fra gabbiani (19), alzavole (13), germani (10) e in altri esemplari di rapaci e anatidi. Molti altri casi sospetti nei gabbiani sono in corso di conferma presso l’IZSVe. Il persistere di casi nei selvatici evidenzia la continua circolazione di H5N1 sul territorio italiano in linea con quanto sta avvenendo in altri paesi europei ed extra europei in cui si registra un aumento di casi anche nel pollame e nei mammiferi selvatici, e in cui sono stati segnalati anche sporadici casi in mammiferi domestici.

Negli uccelli domestici la situazione è più favorevole, dopo la drammatica ondata epidemica di H5N1 HPAI che ha investito prevalentemente il nordest nell’inverno 2021-2022, con 317 focolai negli allevamenti. L’ultimo focolaio nel pollame risale infatti al 23 dicembre 2022, portando a 30 il numero dei casi confermati da settembre 2022. I focolai sono stati riscontrati principalmente in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.

Non si può escludere però che il virus in futuro possa acquisire caratteristiche tali da renderlo trasmissibile da uomo a uomo.

I dati forniti dall’Izs non lasciano spazio a dubbi.

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